“Questione meridionale” e “Politiche per il Mezzogiorno” hanno rappresentato, da più di un secolo e per più di un secolo, i capisaldi di una strategia di rilancio del depresso Sud nelle fantasiose e farsesche agende politiche degli osservatori politici nazionali. L’impulso ad impronta meridionalista, intessuto spesso di pura allegoria assistenzialista, che ha animato, agitato e squassato la calma apparente di uno Stato volutamente cieco e sordo, è sembrato essere più un maldestro e mal calcolato tentativo di riequilibro politico-istituzionale che non una rigenerazione socio – economico - culturale da ottenere incamminandosi lungo il solco tracciato dai grandi padri del Meridionalismo vero, non quello di facciata. Dopo l’unità d’Italia, la Questione meridionale è stata una costante del pensiero degli uomini politici più lungimiranti. Essa ebbe interpreti acuti e lungimiranti ed appassionò uomini di studio come Croce, di sagacia politica come Sturzo, ispirò gli scritti di scrittori come Silone. Uno studio analitico che vede, comunque, nei suoi attori lucani un’esemplare testimonianza alla causa della giustizia e della libertà, della democrazia e del progresso civile. Già il Racioppi si dedicò con dedizione ed abnegazione ad un’indagine storico – geografica per cogliere nelle vicende storiche del passato, dall’antichità all’età moderna, le cause remote, le ragioni di una condizione economico – sociale che a lui appariva per molti versi di difficile comprensione. La crisi della pastorizia, unica ricchezza della regione, la mancata trasformazione dell’agricoltura, la pressocchè totale inesistenza di attività industriali e commerciali, la svalutazione della proprietà terriera, insidiata dalle agitazioni contadine e dal brigantaggio, apparivano a lui, conservatore illuminato, tutti sintomi d’un malessere che non poteva curarsi con i soliti rimedi tradizionali né con la smania legislativa. La miseria materiale e morale, a suo avviso, colpiva ugualmente contadini e proprietari terrieri. Secondo il liberale di Moliterno, le cause erano da ricercarsi nella “sproporzione tra popolazione e capitale sociale, tra il capitale che chiedeva investimenti nell’agricoltura e popolazione agricola”, nell’inesistenza del credito agrario. I rapporti tra proprietari e contadini si erano aggravati per l’eccesivo peso fiscale, rovinando sia gli uni che gli altri, impedendo di fatto la formazione di capitali e mantenendo una situazione stagnante. “Il nodo della situazione – scrisse il Racioppi – è nel capitale che manca”. La voce di Giacomo Racioppi fu quella di un conservatore rurale illuminato, di quella piccola e media borghesia terriera che aveva subito e non poco i contraccolpi dell’allargamento del mercato, che era rimasta ancorata a metodi tradizionali di conduzione dei propri fondi e non aveva la forza di trasformarli per mancanza di capitali. La scuola di pensiero meridionalistico lucana trova, poi, il momento di più alta e preponderante idealità in quel Giustino Fortunato che, per primo, portò la Questione meridionale a superare la fase meramente letteraria, analitico – descrittiva, dei lamenti e delle proteste, per assumere una nuova configurazione in termini socio – politici. La sua “scoperta” fu la dimostrazione della naturale povertà del Mezzogiorno, di un “Paese che dalla geografia e dalla storia per secoli fu condannato alla miseria”, sfatando, così, la diffusa convinzione della naturale ricchezza del Sud funestato dal malgoverno di matrice borbonica. Giustino Fortunato pose, con vigoria intellettuale e fermezza culturale, la Questione meridionale al centro dell’interesse politico come fondamentale problema nazionale dalla cui soluzione o meno poteva dipendere la fortuna o la rovina dell’Italia unita, con l’indicazione di tutta una serie di temi (sperequazione tributaria, emigrazione, problema demaniale) che hanno, poi, costituito il terreno di confronto del dibattito meridionalista. La Questione meridionale, dunque, fu per il Fortunato anche, se non soprattutto, questione di moralità, di risanamento del costume della classe dirigente, legata egoisticamente al suo “particolare”, priva di audacia, di intraprendenza e di capacità politiche. Fortunato fu il precursore di un nuovo modo di guardare alle problematiche del Sud, l’antesignano di una sostanziale pedagogia istituzionale di un Mezzogiorno che doveva rinfrancarsi ed affrancarsi dai gravosi gioghi di una dannazione politica, economica, sociale e morale. L’eredità del meridionalismo fortunati ano ben fu raccolta da Francesco Saverio Nitti la cui impostazione si distinse per modernità ed originalità di vedute, per visione unitaria dei problemi e per approcci metodologicamente nuovi. Con un’indagine sistematica, “Prime linee di un’inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato in Italia”, che è il sottotitolo del suo noto saggio “Nord e Sud”, dimostrò che il Mezzogiorno, rispetto alle altre regioni, aveva dato di più in rapporto alla sua ricchezza, in gettito tributario, ed aveva ricevuto di meno in infrastrutture e servizi. Lo statista di Melfi scrisse: “Per quarant’anni è stato un drenaggio continuo: un trasporto di ricchezza dal Sud al Nord. Così il Nord ha potuto più facilmente compiere la sua educazione industriale; e quando l’ha compiuta ha mutato il regime doganale. E il Mezzogiorno che non ha, soprattutto che non aveva, nulla da proteggere, ha funzionato dopo il 1887 come una colonia, come un mercato per le industrie del Nord; che poi, raggiunto un certo grado di sviluppo, han potuto esportare e sfidare anche l’aria libera della concorrenza”. Il problema era per Nitti, dunque, anche di produttività, di industrializzazione nel contesto dello sviluppo economico italiano all’alba del nuovo secolo con tutte le nuove prospettive aperte dall’utilizzazione dell’energia idroelettrica e con l’indispensabile funzione stimolatrice dello Stato. Si passava, così, da un’impostazione rurale del problema meridionale ad un’impostazione produttivistica. Nel suo saggio “Nord e Sud” il Nitti ebbe a dire: “Il problema del Mezzogiorno è il più grande problema attuale: la libertà e l’avvenire d’Italia sono nella soluzione di questo problema. I proprietari del Sud, costretti spesso a fare una vita che gli operai di Milano non accetterebbero, sono descritti come i feudatari di una Vandea politica. Ora è curiosoi che il 1799, il 1820, il 1848, il 1859, sia pure disordinatamente, gli ideologi di questa Vandea abbiano tentato insurrezioni prima che in ogni altra terra di Italia. In questo paese, che paga come se fosse ricco ed è trattato come un semenzaio di maggioranze parlamentari, lo Stato non è apparso sotto altra forma che sotto quelle di agente delle imposte e di carabiniere. (…) Con tutti i suoi torti l’unità d’Italia, che era il sospiro e la meta dei secoli, ha fatto troppo grandi beni perché sia solo possibile dirne male. Ma il bene che ella ha fatto è stato assai diseguale; donde il contrasto presente. Ed è accaduto che le origini della prosperità di alcune regioni si sono volute vedere non dove erano, nelle dogane, nella finanza, nella politica, ma in una superiorità etnica che non è mai esistita. E ancora è accaduto che chi più ha dato, è parso anche suo sfruttatore. (…) Ora l’Italia meridionale non deve chiedere né lavori pubblici frettolosi, né concessioni grandiose e nemmeno forse istituti nuovi. Queste cose servono qualche volta più all’affarismo che allo sviluppo industriale: più a creare impiegati che a far risorgere l’economia di un Paese. (…) L’Italia meridionale, soffocata dal carico tributario, ha bisogno di aria respirabile, soprattutto di allargare i suoi orizzonti, di formare la sua coscienza collettiva, di eliminare quanto di antisociale le è rimasto. Dopo la Prima Guerra Mondiale ed il silenzio del Fascismo, la Questione meridionale esplose come uno dei problemi di fondo della stravolta società italiana. Giunse al suo approdo risolutore quando si trasformò in impegno politico della neonata Democrazia Cristiana. L’istituzione della Cassa del Mezzogiorno, l’individuazione di Enti per l’industrializzazione e per l’irrigazione, un nuovo sistema di collegamenti e di viabilità, la riforma fondiaria furono i primi passi di un processo lungo, tortuoso e non ancora terminato dalle nuove generazioni della Seconda Repubblica. Un percorso che vide nel lucano Emilio Colombo l’esecutore ed il continuatore di quel mandato ideale ed ideologico che il Fortunato aveva consegnato al pensiero futuro. Il primo intervento dello statista democristiano sui problemi meridionali in un’aula parlamentare risale al 6 novembre 1947, all’Assemblea Costituente, durante un’interrogazione in cui l’allora giovane deputato sollecitò la sistemazione degli acquedotti della Basilicata. Un discorso breve, conciso, ma intenso con il quale, di fatto, iniziò il ruolo di spiccato rilievo che l’onorevole Colombo ha interpretato da uomo politico lucano e da uomo di governo. Il suo impegno vigoroso e tenace, la sua azione innovatrice, di retaggio culturale sturziano, si inquadravano nella visione democratica di una società libera che, nel Mezzogiorno, bisognava scardinare dagli ancoraggi arrugginiti dei condizionamenti storici e delle misere incrostazioni sociali per poter scrivere brani di una società nuova improntata ad una democrazia sostanziale. Emilio Colombo analizzò le cause della depressione del Mezzogiorno con una nuova chiave di lettura, in una visione più realistica. La Questione meridionale per l’onorevole democristiano si traduceva in esigenza di giustizia e di integrazione nazionale, in problema politico ed umano prima che tecnico ed economico. Capì, ricco degli insegnamenti di Giustino Fortunato, che bisognava superare la fase dei lamenti, delle denunce e dell’aberrante immobilismo per giungere alla fase della costruzione di una coscienza collettiva meridionale pervasa dall’ansia del miglioramento delle condizioni di vita affinchè questa divenisse un fattore di rinnovamento della società. Sostenne, tra i primi se non il primo, che le industrie del Sud avrebbero dovuto avere carattere integrativo rispetto a quelle del Nord, tracciò le linee guida del progetto industriale meridionale, auspicò il coinvolgimento dell’iniziativa pubblica congiuntamente a quella privata, stimolò gli investimenti, difese la riforma agraria, la Cassa del Mezzogiorno, l’economia di mercato, sostenne la necessità di spostare i capitali dove era la forza lavoro, , indicò la funzione di promozione umana e non solo di crescita economica che doveva prefiggersi la politica del Mezzogiorno con accenti di profonda sensibilità e caratura umane, affermando che al centro di tutto il processo di sviluppo c’erano gli uomini, in continuità con quella visione cattolico – popolare che vuole che sia l’economia ad andare incontro all’individuo e non viceversa. “A questi uomini bisogna rivolgersi – egli disse -; insieme con essi bisogna operare: essi sono un “fattore” dello sviluppo economico considerato come fine; essi sono soggetti e destinatari ad un tempo dello sviluppo economico e questo deve essere compiuto ed attuato sulla misura della loro dignità e responsabilità”. Pensieri illuminati ed accorati votati ad un inossidabile Umanesimo di fondo. Un Umanesimo che trovava tempo e spazio nei discorsi politici, nelle analisi sociologiche del Meridione, che ispirava teorie economiche e di rilancio del Sud, che riscaldava il cuore di quanti cedevano alle pulsioni della Questione meridionale. Un Umanesimo che si è smarrito, sotto le sferzate del benessere, del liberismo, del neocontrattualismo, del culto del personalismo, del propagandiamo e della mediocrità del ragionamento politico che produce miopia e sordità. Tutto è fermo ed un Paese che non sa camminare è un Paese che rischia di restare privo di storia.
Nuario Fortunato
Fonte: Il Quotidiano della Basilicata – Ottobre 2009
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