mercoledì 23 dicembre 2009

Il Mondo che non c'è

Il Natale è alle porte. Venti di pace spirano nelle nostre anime, spesso disagiate ed inquiete, ma tempeste di guerre si abbattono sul mondo, lontano da noi, fuori dai nostri cuori, distante dal nostro sentire. La globalizzazione, il benessere, rendono ciechi e sordi. Le uniche guerre che ci ricorda il Natale sono fatte di gare di illuminazioni ed opulenta ostentazione dell’avere. Di fronte alla esplosione della bomba di Hiroshima, Gandhi si domandò e domandò come era possibile continuare ad avere fede: fede nell'uomo, nell'amore come anima del mondo, nella non-violenza come forza spirituale che abita tutti gli esseri umani. Le stesse domande scuotono oggi le nostre coscienze o quantomeno rendono inquieti i nostri dormiveglia. Alle soglie del Santo Natale, il Mistero della Natività deve spingerci a riflettere sul non-vivere. Una riflessione che non può non partire da una considerazione che, culturalmente, va spesa circa i meccanismi distorsivi e contorti della imperante globalizzazione che globalizza sempre più ricchezze, prosperità e civiltà, marginalizzando sempre più povertà, depressione ed arretratezza. Ciò che separa e divide i Paesi più sviluppati da quelli meno sviluppati o i Paesi Occidentali da quelli non Occidentali – per utilizzare una definizione dicotomica tanto in voga nelle agende politiche internazionali – non è soltanto un deficit strutturale ma anche un gap di democrazia, di civiltà, di legittimità politica ed istituzionale. Non basterebbe, dunque, implementare politiche di sviluppo economico, incentivare i mercati in linea orizzontale (cioè Sud-Sud) tra economie simili, in modo tale da renderle maggiormente competitive e concorrenziali all’esterno, irrobustendole e fortificandole all’interno. Bisognerebbe adottare politiche volte al raggiungimento non solo della crescita e della prosperità materiali ma anche della prosperità morale, impiantando i semi della sana democrazia, favorendo il decentramento del potere, per ridare credibilità e rinvigorimento alle istituzioni locali, costruendo una stabile e duratura base di uguaglianza, promuovendo il pluralismo culturale e politico, attuando politiche di protezione dei più elementari diritti umani delle popolazioni civili. In termini di diritti umani, è da definire apocalittica e devastante l’emergenza umanitaria che ha investito la regione del Darfur in seguito ad un conflitto dalle proporzioni terrificanti. Le origini del conflitto in Darfur vanno ricercate nel quadro delle tradizionali tensioni interetniche tra le tribù africane dei Fur, Zaghawa e Masalit, a carattere stanziale e agro-pastorale, e le tribù di nomadi cammellieri d’origine araba, in un ambito di risorse profondamente scarse. Tali fattori storici e tradizionali si inseriscono nel contesto scaturito dal processo di pace tra nord arabo e sud africano, dopo circa 40 anni di guerra civile, con un riassetto e riequilibrio di poteri da cui il Darfur è rimasto sostanzialmente escluso. In tale scenario, nel febbraio 2003, tre gruppi, a base etnica africana, hanno costituito due diverse formazioni militari, il Sudan Liberation Movement/Army (SLM/A) e il Justice and Equality Movement (JEM), per contestare l’esclusione dai negoziati di pace tra nord e sud, le scarse risorse destinate dal governo centrale al Darfur, lo stato di marginalizzazione politico-economica della regione e la mancata protezione dei villaggi africani dalle razzie delle tribù nomadi. Il governo ha risposto armando e sostenendo militarmente le milizie Janjaweed, bande di cammellieri d’origine araba, contro le tribù di etnia africana. La guerra civile che ne è scaturita ha prodotto la più grave crisi umanitaria nel Paese dal 1998, caratterizzata da una persistente violazione dei diritti umani delle popolazioni civili. Le stime delle vittime del conflitto variano a seconda delle fonti, anche se la maggior parte delle Ong reputa credibile la cifra di 400.000 morti fornita dalla Coalition for International Justice nell’aprile del 2005 e da allora sempre citata dalle Nazioni Unite. I mass media hanno utilizzato, per definire il conflitto, sia il termine di “pulizia etnica” sia quello di “genocidio”. Il governo degli Stati Uniti ha fatto proprio il termine genocidio, non così le Nazioni Unite. Sono state finora approvate diverse Risoluzioni dal Consiglio di Sicurezza, inviata sul posto una missione dell’ Unione Africana (AMIS) e discusso il caso presso la Corte Penale Internazionale dell’Aia, trovata una parvenza di accordo. Ad oltre tre anni dalla firma dell’Accordo di pace per il Darfur, siglato nel maggio 2006 dal Governo di Khartoum e dai ribelli del Sudan Liberation Army (SLA), però, le speranze d pace hanno lasciato il posto ad un crescente stato di insicurezza. Divisioni e contrasti interni ai gruppi ribelli – parte del SLA ha respinto l’accordo, rigettato anche dal Justice and Equality Movement (JEM), l’altro principale gruppo ribelle in Darfur - e il proposito del Governo di risolvere militarmente il conflitto, nonostante l’accordo di pace, hanno prodotto una situazione caotica di scontri e violenze continue, di cui vittime principali restano le popolazioni civili. Soprattutto, la sospensione da parte del Governo di Khartoum delle operazioni di 16 Ong partner dell’Unicef in Nord Sudan – in risposta al mandato di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità emesso dalla Corte Penale Internazionale contro il Presidente Al-Bashir lo scorso 4 marzo - pone difficoltà enormi per l’assistenza umanitaria alle popolazioni colpite dalla guerra in Darfur. Sebbene gli Uffici Unicef in Darfur siano operativi, il venir meno di organizzazioni partner che svolgono un ruolo chiave nella fornitura di aiuti e assistenza pregiudica gravemente la possibilità d’assistere le popolazioni in bisogno del Nord Sudan in generale e del Darfur in particolare. Un totale di circa 7.700 operatori umanitari sono stati colpiti dal bando delle 16 Ong – 13 internazionali e 3 sudanesi - dagli Stati del Nord Sudan, di cui 6.919 in Darfur. Parte delle scorte e attrezzature gestite dalle 16 Ong bandite sono state confiscate dal Governo. L’Onu ha chiesto al Governo sudanese di ritirare una decisione le cui conseguenze umanitarie sono potenzialmente gravissime: l’impossibilità di fornire assistenza medica a 1,5 milioni di persone e garantire accesso ad acqua e servizi igienici a circa 1,16 milioni, di cui 1 milione in Darfur; il rischio di interrompere il trattamento di 7.279 bambini malnutriti; l’impossibilità di fornire accesso all’istruzione a 296.000 bambini. La risposta del Governo di Khartoum è stata negativa, acconsentendo unicamente a missioni congiunte tra i vari ministeri e le agenzie Onu competenti per verificare i bisogni umanitari nelle aree prima coperte dalle Ong partner. L’Unicef sta collaborando con le controparti dei ministeri competenti per sanità, acqua, protezione ed istruzione e potenziando gli interventi con le Ong partner ancora presenti in Darfur per coprire il vuoto lasciato dalle Ong colpite dalla revoca della licenza d’operare in Nord Sudan. Già prima della decisione del Governo, peraltro, l’inizio del 2009 ed il 2008 erano stati caratterizzati in tutto il Darfur da ondate successive di combattimenti tra esercito e ribelli, con lo scenario bellico che risulta di fatto immutato ormai dalla fine del 2006: il Governo continua a inviare truppe in Darfur, dove proseguono sia i bombardamenti delle postazioni ribelli sia gli attacchi delle milizie arabe Janjaweed agli sfollati, con massacri di civili inermi e distruzioni di interi villaggi. Per altro verso, gruppi e fazioni ribelli sono ormai in guerra non solo con il Governo e i Janjaweed, ma di fatto anche tra loro, per il controllo di singole aree e territori, che passano all’una o all’atra forza in base all’esito di scontri contingenti e a carattere localizzato. Nel complesso, la situazione umanitaria si presenta in costante deterioramento ormai dalla seconda metà del 2006, mentre il conflitto assume sempre più un carattere regionale, con scontri, violenze e flussi di profughi che continuano a riversarsi in Ciad orientale e nella Repubblica Centrafricana. Il risultato è un continuo rivolgimento di fronti e un’imprevedibile escalation di violenze, con una violazione continua dei più elementari diritti umani, un maggiore isolamento delle popolazioni civili e nuove ondate progressive di sfollati. Donne e bambini sono l’obiettivo predestinato di violenze sessuali sistematiche da parte dei gruppi armati, mentre le popolazioni civili restano sottoposte a bombardamenti e massacri generalizzati. Se si considerano i 3 stati del Darfur, più di 4,7 milioni di persone – circa 2/3 della popolazione del Darfur - subiscono direttamente le conseguenze del conflitto: di queste, 2,7 milioni vivono in più di 165 campi sfollati e altre 2 milioni risiedono nelle comunità locali che danno loro accoglienza e che necessitano ugualmente assistenza umanitaria. I bambini colpiti dalla guerra sono circa 2,35 milioni, di cui la metà sono sfollati. Paradossalmente, questa è la popolazione con le maggiori opportunità di sopravvivenza, poiché in qualche modo raggiungibile dagli aiuti umanitari: altre 2,5 milioni di persone - di cui oltre 1,25 milioni sono bambini - risultano invece tagliate fuori da ogni assistenza, isolate in aree rurali controllate dal Governo o dai ribelli, ma egualmente inaccessibili alle agenzie umanitarie. Infine, oltre 250.000 persone - di cui circa la metà bambini - sono fuggite in Ciad orientale, accolte in campi profughi allestiti oltre il confine, dove si registra un crescendo di tensione per gli sconfinamenti sempre più frequenti dei Janjaweed e le tensioni legate al conflitto in Darfur, che hanno contribuito allo sfollamento di ulteriori 180.000 abitanti del Ciad orientale. Nell’insieme, nel 2008 e nei primi mesi del 2009 la situazione umanitaria ha denotato un complessivo deterioramento per una serie di fattori concomitanti, che si sommano allo sfollamento di popolazioni a causa della guerra e alla riduzione dell’accesso umanitario per l’insicurezza dei trasporti. In particolare, i cattivi raccolti, soprattutto nel Sud Darfur, combinati con l’aumento globale dei prezzi alimentari e dei costi di trasporto, ha contribuito ad un aggravamento dello stato nutrizionale della popolazione, in particolare di quella sfollata. A causa del conflitto, l’economia del Darfur è in costante declino
con un peggioramento delle condizioni di vita dei bambini anche quando non appartenenti a comunità direttamente colpite dalla guerra. Soprattutto, il Darfur è stato ridotto ad una sorta di “ghetto”, dove i 3 gruppi in cui la popolazione è stata suddivisa dal conflitto – sfollati, comunità d’accoglienza, popolazioni rurali tagliate fuori dagli aiuti – non hanno libertà di movimento al di fuori delle rispettive aree d’insediamento, con gravi ripercussioni di natura economico-sociale. La maggior parte degli sfollati appartiene a tribù africane che vivono di agricoltura, ora private dei loro mezzi di sussistenza; nell’ultimo periodo, però, la diffusa insicurezza ha anche bloccato le rotte tradizionali delle tribù nomadi dedite al commercio di bestiame, provocando il collasso economico di tali comunità, cui è perfino più difficile fornire assistenza in ragione del loro carattere non stanziale. I risultati di 4 indagini su nutrizione e mortalità infantile condotte ad Agosto 2008 indicano un aumento dei tassi di malnutrizione infantile che, per quanto riguarda la Malnutrizione globale acuta, sono al di sopra della soglia di emergenza del 15% e che per la Malnutrizione acuta grave si attestano tra l’1,2 e il 4,4%. Infanzie rubate, vite spezzate, libertà negate, bambini schiavi, bambini soldati. “E’ Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano” recita un verso di una poesia di Madre Teresa di Calcutta. E’ Natale ogni volta che il Mistero della Natività ci suggerisce di “ascoltare” i lamenti del Mondo.

Nuario Fortunato

Fonte: Il Quotidiano della Basilicata – Dicembre 2009

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